19 Nov 22 Come costruire il “brand” di una destinazione turistica: storie, esperienze e coordinamento pubblico-privato
Scrivo in viaggio verso Castell’Arquato (PC) per l’evento di lancio del nuovo “brand” dell’Alta Val d’Arda che punta, come decine di raggruppamenti territoriali, di far emergere dall’anonimato (o meglio dal turismo di prossimità) una porzione di Italia meno conosciuta ai più. Il proliferare di iniziative di questo genere ci porta a riflettere sulla necessità di creare elementi rappresentativi delle realtà locali che possano superare la dimensione strettamente comunale per poter essere scelti dal mercato. Scrivo scelti e non apprezzati proprio per indicare una chiara visione che dovrebbe essere alla base della scelta di creare un “brand” di una destinazione sovracomunale. Proprio il concetto di “brand” dovrebbe richiamare non solo un logo ed una immagine grafica, ma la presa di coscienza di appartenere ad una unica identità territoriale agli occhi dei potenziali turisti. Ma per far questo non si può certamente prescindere dalla medesima presa di coscienza da parte dei residenti (non solo di quelli operanti nel settore turistico o assimilati).
Da un post di Fare Digital Media ho trovato illuminante questa citazione:
Place Branding è il processo di scoperta, creazione, sviluppo e realizzazione di idee e concetti per (ri)definire l’identità, i tratti distintivi e il ‘genius loci’ di un luogo e, conseguentemente, costruirne il senso complessivo. Un processo di Place Branding richiede diversi tipi di investimento: hardware (infrastrutture, edifici), software (eventi, storie), “orgware” (coordinamento delle strutture organizzative) ed elementi “virtuali” (loghi, azioni simboliche, siti Web).
Ritengo fondamentale la suddivisione nei diversi tipi di investimento per chiarire, definitivamente, che il “brand” non è solamente il logo o il sito web della destinazione (di solito il primo, troppo spesso l’unico, investimento) ma necessita delle infrastrutture (spesso già presenti, non sempre ben gestite) e soprattutto di storie e coordinamento. Proprio su questi due punti intendo soffermarmi perché sono quelli che, comunemente, si associano meno al concetto di “brand” ma che in realtà ne sono l’ossatura senza la quale nè l’hardware nè gli elementi virtuali hanno alcun senso. Relativamente alle storie, tralascio gli eventi per i quali le destinazioni investono fin troppo, possiamo facilmente dimostrare come, spesso, siano alla base delle motivazioni di acquisto dei turisti. Il castello di Montebello pochi sanno dove sia (spoiler: vicino Rimini) ma la storia di Azzurrina la conosciamo tutti e molti abbiamo fatto un’escursione per visitarlo con la speranza, o meglio il timore, di incontrare la sfortunata ragazza nata albina. Pochi di noi sceglierebbero di andare a Pescia (PT) perché non è tra i Comuni più famosi in Toscana se non per la frazione “Collodi” alla quale universalmente tutti associamo la storia di Pinocchio. Tra storie vere ma romanzate, inventate o leggendarie, come ci insegnano i principi dello storytelling (molto usato nelle pubblicità ad esempio), cerchiamo un protagonista ed un antagonista, una sfida da compiere ed un epilogo. Se la destinazione riesce a coinvolgerci nella narrazione rendendoci protagonisti della stessa (come, ad esempio, con activities esperienziali o con progetti di realtà aumentata) allora possiamo affermare di stare “vivendo” il “brand” della destinazione. Questo processo di immedesimazione ci rende letteralmente parte del territorio che intendiamo visitare e produce recensioni positive perché dettate da una reale consapevolezza di far parte del racconto. Porta anche fidelizzazione al “brand” come insegnano le fortunate esperienze de “I borghi più belli d’Italia” e delle giornate/gestioni del FAI. Se mi piace il modello di “engagement”, replico l’acquisto, ne parlo, ci investo tempo e denaro.
L’altro tema è quello del coordinamento. Ho parlato già più volte dell’importanza del coordinamento pubblico-privato nella gestione della destinazione turistica e non solo nella comunicazione e promozione. Qui il tema è visto dal punto di vista dell’appartenenza al “brand”. Lato amministrazione pubblica, solitamente, vi è una società esterna che crea un logo ed un’immagine grafica sulla quale costruisce un sito di destinazione. Lato privato, il nulla. Mi spiego: ben poche realtà territoriali riescono a coinvolgere gli operatori privati, dalla ricettività alla ristorazione ai trasporti, nell’adozione non tanto del brand ma proprio delle “storie” che questo “brand” intende raccontare. Vuoi per mancanza di tempo o di competenze troppo spesso le opportunità dell’attività di branding rimane ferma agli investimenti pubblici. Se il privato non adotta la filosofia che ha generato il “brand” stesso, esso rimane un logo che, a meno che non si chiami “Tuscany” o “Venice” o “Rome”, non porterà mai turisti ma solo frustrazioni.
Nel mio personale libro dei sogni leggiamo che una destinazione prima si confronta sui contenuti software organizzando un sistema di coordinamento efficace ed efficiente, poi si prende cura dell’hardware e solo dopo che tutti sono pienamente coinvolti e convinti del lavoro svolto e degli obiettivi cui puntare, fare il logo, l’immagine coordinata ed il sito.
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MARKETING TERRITORIALE
Rubrica a cura di Marco Cocciarini
Laureato in Economia del Turismo, è consulente di sviluppo innovativo strategico e tecnologico per il destination management turistico in particolare su progetti di cooperazione internazionale e locale. È stato business developer di alcune delle più celebri startup italiane in ambito turistico ed è attualmente responsabile territoriale della loro associazione nazionale.
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